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Con ordinanza n. 19540 del 28 giugno 2018, depositata in cancelleria il 24 luglio 2018, la Corte di Cassazione Civile, sezione VI, ha confermato quanto già sancito da granitica giurisprudenza, e cioè che la revoca del consenso prestato in domanda congiunta di divorzio da parte di uno dei due coniugi, non determina l’improcedibilità della domanda, a differenza di quanto invece avviene in sede di separazione consensuale.

Tale pronuncia arrivava dopo che un coniuge aveva proposto ricorso per cassazione avverso sentenza della Corte di Appello de L’Aquila che aveva rigettato l’impugnazione da lui proposta contro la pronuncia del Tribunale di Pesaro che aveva dichiarato improcedibile la domanda di divorzio congiunto per il fatto che la moglie aveva revocato il suo consenso.

A tale esito la Suprema Corte di Cassazione è giunta in base alla considerazione che mentre la separazione consensuale rientra nei procedimenti a giurisdizione volontaria, la domanda congiunta di divorzio instaura invece un procedimento a giurisdizione contenziosa.

Più nello specifico la Corte ritiene che debba essere lo stesso Tribunale a valutare se l’accordo sotteso alla domanda di divorzio congiunto rispetti o meno i presupposti di legge (L. n. 898/1970) previsti per procedere alla pronuncia circa la cessazione o lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, l’intervento dell’organo giudicante avrà quindi natura meramente ricognitiva rispetto alla sussistenza dei presupposti per sciogliere il vincolo, risultando pertanto irrilevante la revoca del consenso da parte di uno dei due coniugi.

Per quanto attiene invece gli accordi relativi alla prole e ai rapporti economici questi hanno natura negoziale e pertanto il Tribunale nulla dovrà sindacare a meno che gli stessi non contrastino con l’interesse dei figli minori.

Da tali considerazioni deriva che, nel caso in cui uno dei due coniugi dovesse ritirare il suo consenso, tale decisione non avrebbe rilevanza alcuna rispetto alla sussistenza dei presupposti necessari individuati all’art. 3 della L. n. 898/1970, dal momento che questi, in ogni caso, sarebbero sottoposti al vaglio del Tribunale, il quale deve dare una pronuncia di tipo costitutivo e quindi del tutto avulsa dall’eventuale consenso o meno dei coniugi.

Alla base di tali considerazioni vi è l’assodata distinzione (sopracitata) tra separazione consensuale e divorzio a domanda congiunta.

Nel caso di separazione consensuale, all’accordo raggiunto tra i coniugi il Tribunale attribuirà efficacia mediante una semplice attività di controllo che in ogni caso non potrà mai integrare o sostituire il consenso delle parti, è per questo motivo quindi che l’eventuale revoca del consenso dovrebbe ritenersi condizione di improcedibilità.

Inoltre, e qui si fonda la vera distinzione tra le due discipline, per quanto riguarda le condizioni relative al mantenimento e all’affidamento dei figli, nel caso di separazione il Tribunale potrà semplicemente suggerire le modifiche più idonee, arrivando eventualmente a rifiutare l’omologa nel caso in cui non si riesca a raggiungere una soluzione idonea. Mentre nel caso di divorzio il Tribunale avrà invece la possibilità di adottare i provvedimenti temporanei e urgenti e continuare il divorzio nelle forme contenziose, è per questo motivo, quindi, che la revoca del consenso non influirebbe sulla procedura.

Pertanto, alla luce di tali considerazioni, la Cassazione ha confermato l’orientamento secondo il quale, nel caso di revoca del consenso da parte di uno dei due coniugi il procedimento di divorzio non debba arrestarsi, quanto piuttosto il Tribunale debba dapprima accertare la sussistenza dei presupposti di legge e nel caso in cui tale verifica abbia esito positivo valutare la conformità delle condizioni economiche e relative alla prole.

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Articolo pubblicato su Non Solo Fisco al seguente link